lunedì 9 aprile 2012

Cafeto col lato col cuciaro pindolo



 Le prime volte non capivo che cosa significassero quelle parole, ma sapevo che preludevano a qualcosa di buono: il caffè caldo, nero e profumato, che concludeva il rituale del pranzo domenicale a casa di Bruna. Anzi, a casa della Bruna. La Bruna, sì, donna energica, dal viso aperto, dalla risata squillante, che la sentivi già dal giardino; quella risata cristallina che un tempo faceva voltare tutti, al bar della “Samaritana”, quando guardavano gli spettacoli di Walter Chiari in tivù. Era sua quella risata. Dopo poco tempo, la riconoscevano, anche senza più voltarsi.
Bruna, anzi la Bruna, era una donna forte di carattere e di fisico, una donna indistruttibile, grande lavoratrice, mamma attenta ai bisogni dei propri figli prima e di quelli dei nipoti poi.
La Bruna… con quelle gambe nervose, sempre di corsa, che si arrampicavano svelte, lungo la strada di sassi che portava a Villa L’Approdo.
Ricordo ancora la prima volta che la vidi: una folta criniera di capelli neri, fasciati in un foulard, mentre raccoglieva le verdure dell’orto, col grembiule a fiori e le mani sporche di terra. Pochi cerimoniali: la Bruna era tutta sostanza, tutto arrosto e niente fumo, verrebbe da dire, una donna di quelle di un tempo, che oggi non si trovano più. Una vita spesa per il lavoro e per la famiglia: due figli da crescere sani e con sani principi, tre nipoti da accudire con carattere forte ed energia. E un marito, un marito silenzioso, devoto, infaticabile lavoratore anch’esso.
La Bruna era aperta a tutti e così pure la sua casa: chiunque poteva trovarvi ospitalità, con la certezza d’essere accolto, sempre e comunque. La Bruna amava circondarsi dei suoi cari, soprattutto la Domenica, quando la famiglia aveva preso a crescere, ad allargarsi.
Mi raccontava spesso delle sue storie di ragazza, della sua vita nei campi, delle sorelle, dei fratelli, dei genitori severi, dei nonni, delle mucche nella stalla, dove, le sere d’inverno, giovani e vecchi si riunivano a parlare, a raccontarsi storie, facendosi scaldare dal fiato degli animali, perché, a quel tempo, il riscaldamento di sicuro non c’era. Era il tempo della guerra, l’ultima Grande Guerra. C’erano miseria e povertà e ci si accontentava di mangiare polenta e poi polenta e ancora polenta. Solo nei giorni di festa ci si poteva concedere la carne.
Mi raccontava di quando ammazzavano i maiali, sgozzandoli e raccogliendone il sangue, per fare il sanguinaccio, perché, si sa, del maiale non si butta via niente! Lei era bambina e sentiva il maiale gridare, mentre gli uomini lo afferravano, come se la povera bestia sapesse già ciò che lo aspettava. Ma poi era una festa, tutti intorno al tavolo a mangiare quella carne. Vecchi e bambini insieme. E sulla tavola della Bruna, la Domenica, non mancavano mai carne e polenta.
La Bruna era bravissima a cucinare, di tutto, ma mitici erano le sue lasagne al forno e il tiramisù! I miei figli ne andavano matti.
Una volta, quando vennero a farle visita alcuni parenti del Veneto, le portarono alcuni conigli e uno lo regalò a me. Non avevo mai visto un coniglio intero. Ma, soprattutto, non l’avevo mai cucinato. Ero abituata a comprarlo al supermercato, già tagliato a pezzi e bell’e che pronto da cucinare. E così feci, come avevo sempre fatto. Infornai la bestia: quaranta minuti a duecento gradi. Lo presentai in tavola, soddisfatta del mio capolavoro: avevo arrostito un bel coniglio! Quando mio marito fece per tagliarlo… “Ma che schifo! L’hai cotto con le interiora?!?”. E che cosa ne sapevo io!
La Bruna rideva di queste mie inesperienze e mi prendeva in giro, dicendo che sarei stata capace di cercare le zucchine in cima agli alberi. Ma mica ero cresciuta in campagna io! Il mio coniglio divenne un mito, a quei tempi. Un’altra volta mi regalò dei semi, perché piantassi zucchine e pomodori nel mio orto (un orto che, se non fosse stato per mio suocero, che veniva a prendersene cura, di tanto in tanto, si sarebbe estinto come i dinosauri).
La Bruna viveva per sollevare dalla fatica le persone che le erano care. Veniva spesso a casa mia ad aiutarmi nelle faccende domestiche, senza che io glielo chiedessi (per lei era normale e doveroso farlo), mi diceva “Portami il bucato, che te lo lavo io e te lo stendo all’aria aperta, che viene più bello!”. Spesso cucinava porzioni abbondanti, la Domenica, così potevo portarmi a casa pezzi di arrosto, vassoi di lasagne e verdure cotte, gratinate, tiramisù e altre torte, da averne per quasi tutta la settimana.
Ai miei figli, appena nati, aveva regalato una copertina con cappello e sciarpa dello stesso colore (tutto azzurro per lui, tutto rosa per lei), fatti con le sue mani. Di Gianmarco diceva sempre che aveva gli occhi che sembravano due perle. Gianmarco, il primo nipote, per giunta maschio! Che orgoglio! E Gian giocava spesso nel grande giardino della nonna. Un giardino pieno di pericoli, tutto terrazzato. Ricordo ancora quella volta in cui (era estate) eravamo andati a fare visita alla nonna e c’era anche la cuginetta Jessica. Io stavo bevendo il caffè in cucina, quando Jessy entrò di corsa chiedendo un  asciugamano per Gian. “Che se ne fa di un asciugamano?” Le domandai. “Si deve asciugare!”. Eh, già, che te ne fai di un asciugamano, altrimenti? La cosa mi insospettì e decisi di seguirla (qualcosa bolliva in pentola… E non era il mio coniglio!). Mi si gelò il sangue, quando vidi mio figlio uscire dalla fontana dei pesci rossi, bianco come un lenzuolo. “Ma che ci fai lì dentro? Come ci sei finito?”. Era una fontana irta di spuntoni di roccia, che si trovava sotto ad una rivetta di terra ed erba che, dal terrazzamento superiore, conduceva al pollaio: Gian era caduto dall’alto. Uno dei suoi sandali si era infilzato in uno spuntone di roccia. Per poco non svenni dallo spavento. Solo qualche graffio e qualche livido, grazie al cielo!
In fondo al giardino, c’era quella che nonna Bruna chiamava "la valle", una discesa ripidissima dove, in autunno, andava a raccogliere le castagne insieme ai nipoti. Spesso, quando andavo a riprendere mio figlio, di ritorno dal lavoro, gli domandavo: “Che hai fatto di bello oggi?” E lui rispondeva: “Sono stato in Valle con la nonna”. Se invece era estate: “Ho giocato sotto i rododendri con la Je”.
E la piscina… Nonna Bruna, per i suoi nipoti, aveva comprato una piscina gonfiabile, dove loro si divertivano a sguazzare come pesci! Il dramma era tirarli fuori da lì. Una volta ci aveva ospitato anche un amichetto di Gian.

Eh, sì, quanti ricordi, nonna Bruna! Dura, ma tenera allo stesso tempo.
E poi… poi il destino ha voluto che ti spegnessi poco per volta, quasi che avessi accumulato in tutta la tua vita troppa energia, quasi a dire Adesso basta! Riposati un po’!...
E il riposo del corpo è stato davvero lungo, Bruna, lungo quanto tu non l’avresti mai voluto. Così dicevi sempre.
 Ciao, Bruna…

 Lau

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