lunedì 9 aprile 2012

CIAO, GUIDO!


   

   Quinto piano… una rampa di scale infinita… poi ecco la stanza. Mi soffermo un istante, prima di entrare, e prendo fiato: l’aria è calda e pesante, si respira odore di medicinali, di disinfettante, di chiuso, di corpi malati. Tre letti: al centro lo zio. Entro.
C’è Giorgio, l’amico di famiglia, da sempre vicino nei momenti importanti e anche in quelli che non lo sono. Se ne sta seduto su di una sedia di plastica grigia, lo sguardo fisso sul suo amico, che dorme di un sonno profondo. Mia madre mi segue silenziosa: non oso nemmeno immaginare quali siano i suoi pensieri, quali i ricordi che riaffiorano alla sua mente. Sono gli stessi che ho io. Di colpo catapultate indietro nel tempo di cinque anni: altra stanza, altro ospedale, altra persona. Non posso fare a meno di frenare le lacrime, che affiorano contro la mia volontà, mentre le supplico di rimanere lì, tremolanti nell’occhio, senza scendere lungo le guance: tornate indietro, per favore! E mi ascoltano. Ma il nodo alla gola si fa sempre più stretto e quasi mi toglie il respiro. E quello, no, non ce la faccio a fermarlo. Deglutisco a fatica e con dolore. Finalmente mi escono le parole: “Ciao, Giorgio!” Mi avvicino all’amico, che si alza e mi viene incontro. Lo abbraccio e lo bacio sulla guancia. “Ciao, stellina!” Mi fa una carezza, amorevole come un padre. L’ultima volta che l’ho visto era il giorno del funerale del babbo. Giorgio lo aveva assistito come un amico fedele fino all’ultimo istante, presente ogni giorno, unico tra tutti gli amici. Per me è molto più di un amico: è uno di famiglia. Lo ricordo ancora, quand’ero piccola, quando veniva con la moglie Olivia a cena a casa nostra.  Mi accompagnava a letto, prima di andarsene, mi faceva ridere con le sue battute e mi diceva che ero una bimba bellissima, che da grande avrei avuto tanti mosconi attorno ed io chiedevo perché tante mosche… I mosconi… anche zio Gigi me lo diceva…
Zio… zio, mi senti? Mi avvicino al suo letto e lo guardo.
“E’ incosciente, Laura” Dice Giorgio “non può sentirti”. Poi guarda mia madre: “Assomiglia sempre di più al Mondino…” E a lei si riempiono gli occhi di lacrime.
Mondino… il mio babbo… Io non trovo questa grande somiglianza. Lo zio Gigi è un’altra cosa. Gigi ricorda lo zio Antonio, con quei lineamenti affilati, il naso dritto e le labbra sottili.
Gigi è sempre stato un uomo pieno di vita, un inesauribile. Compone canzoni, da un po’ di anni.  Scrive anche poesie. Tempo fa mi aveva chiesto se gli scrivevo qualche testo, ma io non scrivo canzoni. Ci ho provato: sembravano più romanze. Sono sempre troppo prolissa.
Mi faccio più vicina e gli prendo una mano, la destra. La sinistra è paralizzata, come tutta quella parte del corpo. “Ciao, zio, sono Labbrina…” Lo zio mi chiamava sempre così, quand’ero piccola. Mi stringe la mano e fa una leggera smorfia con la bocca. Mi sente! Allora mi sente! “Zio, c’è anche la mamma con me” Stessa smorfia. Altro che in coma: è cosciente, capisce, può sentire! Lo bacio sulla fronte. Si sforza di muovere le labbra: vuole dire qualcosa.
“Che c’è? Cosa vuoi dirmi? Sono qui”. Uno sbuffo, uno sforzo disumano e un suono gli esce dalla bocca, ma disarticolato, incomprensibile. “Non ho capito” gli dico. E guardo mia madre, in cerca di aiuto. “Non riesco a capire”. Lui ci riprova e risbuffa: lo stesso suono, adesso un po’ più chiaro, ma comprendo solo a metà. Ci riprova: deve dirlo. E ce la fa. PARLAMI DI VITA, mi dice… PARLAMI DI VITA… Ripete. Una lacrima rotola e si schianta sul lenzuolo, sorda, discreta, timida. Sembra quasi volermi chiedere scusa per essere scappata. Vorrei tanto parlargli di vita, ma non viene niente da dire. E mi sento in colpa. Non ho parole di vita per lui, in questo  momento. Solo silenzio e un dialogo muto. Gli tengo la mano: non riesco a fare nient’altro. Poi di nuovo il silenzio, di nuovo quel suo respiro affannoso e l’immobilità del suo corpo.
“Dorme” dice Giorgio. “E’ da ieri sera che non apre più gli occhi.
Il mio sguardo cade sull’uomo nel letto accanto: quanti anni avrà? A occhio e croce una novantina, forse qualcuno meno. E’ solo: nessun parente in visita. E’ solo e agitato. Rotola lo sguardo a destra e a sinistra, agita le gambe, seminude, scoperte, fuori dal lenzuolo. Sono magrissime e la pelle è bianco latte. Gli occhi cerulei sono velati, lo sguardo torbido, come acqua di uno stagno melmoso. E’ rosso in viso.
Una forza che va al di là di me mi spinge ad avvicinami al letto. Mia madre è intenta a parlare con Giorgio e io mi allontano inosservata. Mi avvicino all’uomo e lo guardo negli occhi. Anche lui mi fissa. Si chiederà chi sono: non un’infermiera (non ho il camice), non una parente (non  mi ha mai vista). Si starà chiedendo perché sono lì, che cosa voglio da lui. Mi fissa in silenzio e lo fisso con lo stesso silenzio. Poi riprende ad agitarsi. “Ha bisogno di qualcosa?” Gli domando. Farfuglia sillabe incomprensibili. Fa un caldo infernale in questa stanza. L’uomo è proprio sotto la finestra, dove batte il sole. La luce e il calore devono infastidirlo. Abbasso la tapparella, finché il suo corpo non resta in ombra. Gli tocco la fronte e il viso: è caldo e sudato. Mi guarda. Lo tocco. Lo accarezzo sulla fronte, sul viso, sulle braccia scoperte. Gli prendo la mano. Leggo il suo  nome sulla cartella appesa al letto: Guido. Guido e basta. Al posto del cognome c’è scritto FRULLATO. La privacy…
Guido è legato: ha i polsi legati alla sponda del letto. E’ pieno di tubicini, canne e cannette, nel naso, nel collo, nelle braccia. Che cosa provi, Guido? Come stai? Come ti senti, qui solo in un letto d’ospedale, senza nessuno che parli con te, che ti consideri, che ti rivolga un pensiero? Che cosa desideri? Cosa pensi della tua vita in questo momento? Chi sei? Perché sei qui? Chi sei stato prima di arrivare in questo posto? Quante persone ti hanno amato e quante soffrono per te? Hai paura? Cosa aspetti, forse la morte? Di che cosa hai bisogno? Cosa vorresti dire, esprimere, quali sono i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri, le tue paure? Cosa posso fare io adesso, in questo momento, per te? Amore. E’ tutto quello che vorrei io in un momento simile. Amore e presenza. Amore e sentire che c’è qualcuno, che non sono sola, che posso aggrapparmi alla vita, aggrappandomi a quella di un’altra persona. Aiuto, appoggio, sostegno, comprensione… Tutto questo vorrei io. Tutto questo, credo, vorrebbe qualsiasi essere umano. E vorrei essere trattata come persona, non come numero, come letto, come oggetto, come un essere qualunque. Ho un’anima che urla, che grida qualcosa alla vita che fugge, che urla agli altri che non mi stanno a sentire, perché non posso, non riesco a parlare, ma urlo, urlo urlo…. ASCOLTATEMI, VI PREGO! ASCOLTATEMI ANCHE SE NON HO PAROLE, AIUTATEMI A VIVERE, HO PAURA DI MORIRE. NON LASCIATEMI ANDARE DA SOLO COSI’, SOLO… AIUTATEMI! E’ questo che gridi di dentro, Guido? Io te lo leggo negli occhi.
Lo accarezzo a lungo sulla fronte. Bagno una garza, che rubo dal suo cassetto, e gliel’appoggio sulle labbra. Guido succhia avido. Anche il babbo faceva così. Aveva la bocca arsa e pure Guido ce l’ha. Bagno un’altra garza e gliela passo sul viso e sul collo. “Ha caldo?” Gli domando. Fa cenno di sì. Gli scosto il lenzuolo. Con le mani legate cerca di denudarsi, afferrando il lembo del camice che ha addosso. Resta a torso nudo. Non faccio nulla per coprirlo. Lo accarezzo sul petto. Ha lunghi peli bianchi che lo ricoprono. Ha le unghie lunge, nelle mani e nei piedi. Potrebbe graffiarsi. Perché nessuno gliele taglia? La pelle è secca e screpolata, al limite della spaccatura: avrebbe bisogno di crema. E’ disidratato. Continuo ad accarezzarlo. Adesso Guido mi guarda con occhi più sereni: non si chiede più chi io sia, si affida a me. E io lo coccolo come fosse un bambino, come fosse mio figlio. Gli sorrido e lo accarezzo, finché si addormenta. Poi mi allontano da lui. Ho addosso gli occhi di mia madre che piange e quelli di Giorgio. “Ti ricorda tuo padre?” Mi domanda lui. No. Non mi ricorda nessuno: solo un uomo che soffre e ha bisogno di amore. Torno vicino allo zio, ma ormai è sprofondato nel sonno profondo, nello stato di incoscienza. Si è fatto tardi: è ora di tornare  casa. Guido si sveglia, apre gli occhi e mi cerca. Riprende ad agitarsi. Torno da lui, gli faccio una carezza: “Devo andare”. Gli bisbiglio. “Ciao, Guido!” Ed  esco dalla stanza, coi suoi occhi che mi seguono finché sparisco oltre la porta. CIAO, GUIDO, mi ricorderò dei tuoi occhi.

Lau

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