lunedì 9 aprile 2012

Insegnamento e apprendimento


CORSO DI AGGIORNAMENTO DEL SETTEMBRE 2008
RELATRICE: DOTT.SSA AMALIA MINEO PSICOTERAPEUTA

 INSEGNAMENTO E APPRENDIMENTO
02/09/2008
(appunti personali, non rivisti dal relatore)

OBIETTIVI GENERALI DEL CORSO:
q       Confrontarsi su come sollecitare l’interesse e la motivazione degli studenti, considerando sia gli aspetti cognitivi sia quelli affettivi dell’apprendimento
q       Individuare le cause e ipotizzare gli interventi atti a diminuire il disagio socio-culturale, che interferisce negativamente con l’apprendimento, dei ragazzi e delle loro famiglie
q       Migliorare la relazione scuola-famiglia, al fine di creare una sinergia che favorisca lo “star bene” a scuola di tutti i protagonisti del processo di insegnamento-apprendimento
 CONTENUTI:
q       Interesse e motivazione all’apprendimento
q       Il disagio socio-culturale di allievi e famiglie
q       La comunicazione fra insegnanti-allievi-famiglie
 METODI:
q       Momenti di confronto e input teorici per fissare i contenuti emersi.
 PRIMO INCONTRO:
INTERESSE E MOTIVAZIONE ALL’APPRENDIMENTO.
Si parte con una domanda, rivolta dalla psicologa alla platea dei docenti:
Che cosa significa, per voi, INSEGNARE?
Esitazione? Pochissima, solo iniziale, nell’attesa che qualcuno prenda la parola per primo. Figuriamoci se un docente non ha la risposta pronta ad una simile domanda!
Ed ecco, a raffica, una dopo l’altra, le risposte che vengono da più parti:
Þ       Trasmettere un sapere
Þ       Fare acquisire desiderio di conoscenza
Þ       Stimolare la curiosità
Þ       Stabilire una relazione
Þ       Fornire un modello (di relazione/sapere)
Þ       Fornire un metodo di apprendimento/studio
Þ       Definire i ruoli (docente/discente)
Ed ecco la seconda domanda:
Che cosa significa IMPARARE?
Þ      Acquisire competenze (saper fare, calato nella situazione reale)
Þ      Acquisire una capacità critica e di analisi
Þ      Saper esprimere un giudizio
Þ      Essere capaci di scegliere
Þ      Non formarsi pregiudizi
Þ      Accogliere ciò che dice l’insegnante, perché si ha fiducia in questa figura
 Si discute sui vari punti, ascoltando le diverse opinioni ed interpretazioni. Ci si sofferma, in particolare, sul valore del termine giudizio e sull’azione stessa del giudicare, uno dei compiti/doveri che la nostra professione comporta.  La discussione si fa animata sul giudizio stilato nei confronti dell’alunno e sulla sua valenza. E’ opinione comune che occorre giudicare il prodotto e non la persona! Sembrano cose scontate, ma quanto è lontana, a volte, la teoria dalla pratica! Ogni docente ha ricevuto, nell’arco della propria formazione, un’infarinatura generale di pedagogia e tutti noi sappiamo che è sbagliato giudicare le persone o, peggio ancora, farsi dei pregiudizi nei loro confronti, perché un giudizio/pregiudizio può condizionare un comportamento in negativo (effetto Pigmalione: dire ripetutamente ad un ragazzo “Sei uno stupido, non capisci niente” equivale a convincerlo di esserlo davvero e il soggetto si comporterà di conseguenza).
La funzione docente è una funzione educativa e formativa e nel suo svolgimento si avvale di tre elementi: CONDIZIONAMENTO, POTERE, GIUDIZIO/PREGIUDIZIO.
La psicologa passa ad analizzare l’apprendimento: da che cosa dipende? Da due fattori: ASPETTI COGNITIVI  e ASPETTI AFFETTIVI. Entrambi sono importanti ed interagenti fra loro nel processo di apprendimento, influenzandosi a vicenda. In particolare, pesa molto la valenza affettiva su quella cognitiva (un ragazzo con problematiche affettive avrà maggiori difficoltà ad apprendere, rispetto ad uno che non ne ha).
Apprendere costa fatica. La psicologa invita a riflettere su questa affermazione e ci invita a ripensare alla nostra esperienza di studenti. Ci viene quindi distribuito un questionario al quale dobbiamo rispondere.
Ø       Pensa ad una situazione specifica della tua vita adulta o bambina nella quale hai sperimentato un apprendimento difficile, faticoso oppure fallito. Ricorda le emozioni che hai provato, che cosa sentivi nella tua testa e nel tuo corpo, se hai provato disagio.
RISPOSTE:
frustrazione, confusione, ansia, disagio, inadeguatezza, rinuncia/voglia di farcela, demoralizzazione, timore di essere escluso, solitudine, rabbia, insofferenza, invidia per chi ci riusciva senza fatica, smarrimento, vergogna, umiliazione, oppressione, panico.
Tra tutte le risposte, ci si sofferma particolarmente ad esaminarne una: la FRUSTRAZIONE.
La psicologa sottolinea che essa deve essere commisurata alla capacità di reazione. E’, dunque, fondamentale, nell’insegnamento, che il docente AIUTI il discente ad affrontare la frustrazione dovuta ad una non riuscita. Se la frustrazione non viene superata, infatti, viene deviata e agisce sul mondo esterno (sono gli AGìTI, azioni in cui il soggetto proietta verso l’esterno un disagio interiore oppure rivolge la frustrazione contro se stesso).
Compito dell’adulto sarà, allora, quello di aiutare il ragazzo a non sentirsi solo nella difficoltà!
Ø        Hai poi superato la tua difficoltà? Come? Quanto tempo è intercorso? Qualcuno ti ha aiutato? Che cosa hai provato?
RISPOSTE:
Tutti riferiscono di avere avuto difficoltà e di averle bene o male superate, grazie all’aiuto e al supporto dell’ adulto, al conforto, alla solidarietà che hanno fatto nascere un senso di forza, con la conseguente consapevolezza di potercela fare.
Ø        Pensa ora alla tua esperienza di insegnante o educatore, ad una situazione specifica nella quale ti sei trovato di fronte un allievo in difficoltà di apprendimento. Quali sue emozioni hai percepito? Quali suoi comportamenti hai visto in atto? Quali sono state le tue emozioni in risposta?
RISPOSTE:
Ansia dell’alunno con (in alcuni casi) ricerca di aiuto da parte di compagni e/o dell’insegnante, superficialità nell’affrontare la prova. Atteggiamento di rifiuto, chiusura in se stesso.
La psicologa si sofferma sul fattore ansia e spiega che questo tipo di emozione può avere due valenze, una positiva, che stimola al superamento della difficoltà, ed una negativa, paralizzante e inibente a livello dell’apprendimento.  Qui risiede l’abilità del docente, nel riuscire a creare un rapporto di fiducia con l’alunno, tale da farlo aprire all’altro, per trovare la forza/il coraggio di superare i propri blocchi mentali.
Capita, a volte, che l’adulto si senta impotente di fronte alle difficoltà del ragazzo, così come capita che le emozioni in risposta all’ansia eccessiva del ragazzo siano di rabbia da parte del docente. Teniamo, comunque, presente che l’altro percepisce sempre le nostre emozioni, non solo attraverso il linguaggio verbale, ma anche attraverso quello non verbale, fatto di sguardi e gestualità e che, spesso, è molto più eloquente. Proprio per questo dobbiamo stare attenti a non creare incongruenze tra i due tipi di messaggio (es. dire “Non ti preoccupare”, avendo lo sguardo corrucciato), poiché l’incongruenza genera confusione nell’interlocutore. Un esercizio molto utile, per noi insegnanti, può essere quello di soffermarci su quello che l’alunno ci fa provare. In tal modo possiamo comprendere anche quello che prova lui. Se noi proviamo pena, ansia, senso di fallimento e siamo adulti che in qualche modo riescono a pilotare ed interpretare i propri sentimenti, immaginiamo quale tempesta interiore si possa scatenare nel nostro alunno. Cerchiamo, allora, di sdrammatizzare le situazioni, di non esagerare nel darci peso. Proviamo a stemperare l’ansia, parlando anche delle nostre esperienze vissute, analoghe alle sue (come ho superato io il problema? Prova a farlo anche tu: è possibile!).
E’ poi molto importante non farsi prendere dal senso di onnipotenza e dal desiderio di strafare. Poniamo poi  attenzione alle reazioni fisiche dei nostri alunni: si reagisce con sintomi corporei, quando il livello d’ansia è molto alto e le sensazioni sono poco simbolizzate. Tutto questo, però, porta alla “morte” della voglia di apprendere e delle “capacità” adulte. Non dimentichiamo, infine, che tutti i ragazzi hanno delle potenzialità, anche “i più gravi”, quindi occorre perseguire con loro almeno un obiettivo, che, per semplice o banale che possa sembrare, sarà comunque un punto di partenza.

SECONDO INCONTRO:
IL DISAGIO SOCIO-CULTURALE DI ALLIEVI E FAMIGLIE
Ogni ragazzo arriva a scuola con una serie di pre-giudizi (meglio definirli giudizi pre-fabbricati, secondo la mia opinione, per evitare equivoci) dovuti alla famiglia con tutto il suo vissuto che influisce inevitabilmente sull’apprendimento.
La psicologa ci invita a pensare al termine famiglia e ci chiede di specificare il termine: che cosa intendiamo noi per famiglia? Io penso solo ai genitori. I  miei colleghi, invece, tirano fuori un sacco di altre cose: fratelli e sorelle, nonni, zii, cugini, famiglia allargata, famiglia straniera, famiglia mista, famiglia adottiva/affidataria, senza genitori, con genitori omosessuali.
Il concetto va dunque rivisto alla luce dell’evoluzione dei tempi e della società, senza dimenticare che il ragazzo è il prodotto della famiglia ed è influenzato dal clima che si vive in essa.
Qualcuno osserva che oggi i ragazzi non hanno più timore dei genitori e dei professori. Ciò è dovuto ad una serie di cambiamenti sociali che hanno visto, nel corso degli anni, l’evoluzione del ruolo della donna, che, col lavoro, è diventata una figura più assente dalla casa. La sua assenza, osserva la psicologa, ha generato in lei, più o meno consciamente, un senso di colpa che l’ha indotta ad essere più permissiva con i figli (meccanismo di compensazione), a dare meno regole, a dire sempre, o quasi, di sì, per evitare il conflitto, difficile e stressante da gestire, soprattutto dopo una giornata di lavoro. I genitori si sono trasformati in amici dei figli e in loro alleati contro i docenti, schierandosi dalla parte dei propri cuccioli, screditando così la figura docente, ma, di contro, perdendo anch’essi di autorevolezza davanti alla prole. E’ così sempre più difficile gestire il “no” e ai ragazzi pare tutto dovuto e vien meno anche il desiderio, l’attesa, a vantaggio del tutto e subito. Che influsso può avere tutto questo sull’insegnamento? Il ragazzo non sopporta più la fatica, la difficoltà, lo sforzo, l’impegno, soprattutto in vista del raggiungimento di un obiettivo lontano. Qual è la molla dello studio? Chiediamocelo… E’ l’INTERESSE, è la MOTIVAZIONE, è il COINVOLGIMENTO, PERCHE’ QUELLO CHE FACCIO MI SERVE. Ecco, allora, un compito in più per l’insegnante: ESSERE CHIARO CON L’ALUNNO, ESPORRE L’OBIETTIVO E FAR CAPIRE CHE IL SUO RAGGIUNGIMENTO E’ UTILE PER LA VITA ANCHE SE NON DA’ FRUTTI IMMEDIATI, MA QUESTI POSSONO ESSERE COLTI ANCHE A LUNGO TERMINE. Dobbiamo dunque rieducare il gusto della procrastinazione del raggiungimento dello scopo/utile.
Alla famiglia, invece, il compito di riequilibrare gli aspetti normativi e quelli affettivi, invitando i figli a parlare di più e soprattutto a parlare delle loro emozioni, magari parlando loro delle nostre, cosa che non si fa quasi mai. Evitiamo poi di instillare nei nostri figli l’idea che il mondo è solo pericoloso (anche se di fatto lo è), perché i nostri figli hanno bisogno di sperimentare, di vivere le proprie esperienze e non di crescere lontano dai pericoli del mondo esterno. Insegniamo loro, piuttosto, ad affrontarli. La paura di tutto ciò che è esterno, si trasforma, nella famiglia, in diffidenza verso ciò che è altro da sé, quindi in diffidenza anche verso l’insegnante, visto come un intruso e quindi screditato ed esautorato del proprio “potere”. Riscopriamo, invece, noi stessi il valore PROTETTIVO DELLA NORMA  e facciamolo scoprire ai nostri figli, facendo capire loro che le REGOLE SERVONO PER CRESCERE.
TERZO INCONTRO:
LA COMUNICAZIONE FRA INSEGNANTI-ALLIEVI-FAMIGLIE
Che cosa significa il termine COMUNICARE? Come ben sanno tutti gli insegnanti, COMUNICARE equivale a METTERE IN COMUNE QUALCOSA. La comunicazione si avvale prima di tutto di un EMITTENTE (colui che  emette il messaggio) e di un RICEVENTE (colui che lo riceve). Nel mezzo troviamo il MESSAGGIO, che viene trasmesso attraverso un CANALE.
Il processo della comunicazione è circolare, in quanto il ricevente rimanda all’emittente.
Ma è elemento altrettanto importante, per non dire fondamentale, il CODICE (se due persone comunicano utilizzando codici diversi, ad esempio una lingua diversa, non si comprendono). Fanno parte della comunicazione altri elementi: il CONTESTO e il TEMPO. Il contesto influenza moltissimo la comunicazione (rumori, fonti di distrazione, pensieri… ).
Occorre dunque avere ben presenti tutti questi elementi, quando ci mettiamo in relazione con qualcuno. Pensiamo al contesto: se noi docenti rivolgiamo un rimprovero ad un alunno davanti alla classe, questo avrà un peso molto diverso, rispetto al medesimo rimprovero, fatto con il medesimo tono di voce e i medesimi atteggiamenti, ma in un contesto differente, ad esempio a quattr’occhi. E questo perché, nel primo contesto, la classe, appunto, pesano altri elementi, quali la vergogna, l’umiliazione… Anche il tempo a disposizione per la comunicazione ha la sua importanza: meglio rimandare la comunicazione di un messaggio importante e che va soppesato, piuttosto che riferirlo di fretta, col rischio di venire fraintesi o di esprimersi male, fallendo lo scopo.
La scuola di psicologia di Palo Alto, in California, studiando la comunicazione patologica, è arrivata a scoprire anche i dinamismi della comunicazione normale (Le tesi centrali  alla base della scuola sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non si originano nell’individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui; in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.

A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio, la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare “follia”. Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della comunicazione umana non si limita a un’interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. “Paradossalmente” è proprio con l’iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la “prescrizione del sintomo” e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili. Partendo da queste premesse, la terapia viene intesa non come “guarigione”, ma come “cambiamento”. Sarebbero distinguibili due realtà, una delle quali è supposta, oggettiva ed esterna, e un’altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo. Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni dovute al fatto che il mondo della razionalità è controllato dall’emisfero cerebrale sinistro, che ci consente di interpretare la realtà oggettiva in termini razionali, secondo una logica metodologica. Ma questa è spesso in conflitto con l’attività dell’emisfero destro da cui nascono fantasie, sogni e idee che possono sembrare illogiche e assurde. Il linguaggio della psicoterapia deve intervenire sull’emisfero destro, perché in esso l’immagine del mondo è concepita ed espressa, e, mutandone la grammatica attraverso paradossi, spostamenti di sintomi, giochi verbali, prescrizioni, si determina il cambiamento dell’immagine del mondo che è alla base della sofferenza psichica. La rivoluzione non è da poco, perché smentisce la persuasione comune secondo cui, a partire dalla nascita, la realtà non può che essere “scoperta”. Il costruttivismo sostiene che ciò che noi chiamiamo realtà è un’interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l’esperienza. La realtà non verrebbe quindi “scoperta”, ma “inventata”. Da queste invenzioni nascono “stili di vita” che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti di possibilità alternative. Invece, attraverso una nuova formulazione di vecchie immagini del mondo, possono sorgere nuove “realtà”. Fonte sintetizzata: www.lavocedifiore.org).

Come è risaputo, esiste una COMUNICAZIONE di tipo VERBALE e una di tipo NON VERBALE, fatta di gestualità, sguardi, atteggiamenti corporei. Il primo assioma degli studiosi di Palo Alto è che NON SI PUO’ NON COMUNICARE. Per renderci meglio conto di quanto detto, la psicologa fa svolgere un “gioco”: invita cinque volontari a seguirla fuori dalla sala del corso e spiega loro che devono interpretare ciascuno un’emozione  diversa, senza usare le parole, ma con la sola comunicazione non verbale (paura, felicità, preoccupazione, tristezza, assenza di emozioni). I cinque attori rientrano nella sala e interpretano la parte, mentre il gruppo deve “indovinare” quali siano le emozioni espresse. Alcune vengono colte senza difficoltà (felicità e tristezza), altre lasciano spazio a più interpretazioni. Nessuno coglie la non-emozione, che viene comunque interpretata. Questo dimostra che, anche nella nostra apparente impassibilità, trasmettiamo qualcosa.
Ritornando alla comunicazione verbale, la psicologa ci invita ad analizzarne le varie componenti, che vengono scritte alla lavagna: parole (dipendono dal contesto); tono (dipende dalle emozioni); pause; ritmo (se sono agitato aumenta, se sono tranquillo diminuisce).
Anche il SILENZIO viene visto come una forma di comunicazione: ti comunico che non voglio comunicare.
Analizziamo, quindi, gli elementi della comunicazione non verbale: gesti (sono culturalmente determinati); viso (sguardo, mimica facciale…); postura; abbigliamento.
Ora ci invita ad OSSERVARE, sottolineando che l’osservazione è un punto di partenza importantissimo per interpretare. Questo fattore diviene fondamentale nella scuola, all’interno di un consiglio di classe, per esempio, nel momento in cui la collegialità ci aiuta a conoscere meglio l’alunno.
La dottoressa Mineo ci invita ad essere sempre CONGRUENTI fra la comunicazione verbale e la non verbale, onde evitare ambiguità interpretativa (parlare di una tragedia ridendo, ad esempio, è poco credibile e si rischia di non essere presi sul serio o di passare per malati di mente).
Ci viene illustrata in breve la teoria dell’analisi transazionale, secondo la quale, in ognuno di noi, convivono un GENITORE, un ADULTO  e un BAMBINO (sono tre sfere della nostra personalità, che rappresentano rispettivamente norme/affettività, razionalità/logica e impulsività/emotività). Anche queste hanno il loro peso nella comunicazione, sia nel modo in cui ci esprimiamo/poniamo davanti agli altri, sia in quello in cui veniamo da essi percepiti. Facciamo quindi il gioco della maestra e dei genitori a colloquio. La maestra viene istruita dalla psicologa su ciò che deve comunicare ai genitori, senza che questi lo sappiano, mentre i genitori ricevono a loro volta altre istruzioni, sconosciute alla maestra. Sulla base di queste, si rappresenta/simula una situazione. Il gruppo viene diviso in due parti: ad una spetta il compito di focalizzare la comunicazione verbale, all’altro solo quella non verbale. Dopo 10’, il gruppo riferisce le proprie impressioni. Ne emerge una quantità di informazioni molto nutrita, che dimostra come l’interpretazione di una medesima comunicazione appaia differente da una persona all’altra e persino dalle stesse intenzioni comunicative degli “attori”.
La discussione si apre sul rapporto comunicativo docenti – allievi - genitori…
Ad ognuno di noi, alla luce dell’esperienza vissuta, trarre le conclusioni e mettersi nei panni degli altri.

Laura Veroni

Nessun commento:

Posta un commento