lunedì 9 aprile 2012

Viaggio ad Amsterdam



Amsterdam...

Non ce la faccio più dalla sete! E’ dalle 5 del mattino che non bevo un goccio d’acqua, per evitare la nausea in viaggio, e sono già le tre del pomeriggio. 
Entriamo in un bar e ordino mineral water no gas (non sopporto le bevande gasate, mi scatenano il mal di stomaco) Ecco, ti pareva: frizza! Mio marito cerca di sgasarla, agitandoci dentro un cucchiaino. Niente da fare.
“Excuse me, can you bring me an ice tea, please?” Chiedo, nel mio inglese stentato. Finalmente arriva, con tanto di fetta di limone. Non ci posso credere: gasato pure il tè!!! Vuoi vedere che ad Amsterdam è gasato anche il caffè?
Bevo lo stesso: meglio il mal di stomaco che morire disidratata.
Raggiungiamo l’albergo.
Carichiamo i bagagli in ascensore e saliamo al quinto piano. 
L'ambiente è confortevole e tranquillo, almeno così pare. 
Siamo andati in cerca di un hotel silenzioso, tramite internet, lontano dal rumore, pur rimanendo in centro, e abbiamo trovato questo, con stanza direttamente sul canale, dove non passano auto. Che meraviglia, almeno si può dormire! 
Col cavolo! Aria condizionata a manetta, che ogni 20 minuti parte con un casino pazzesco! It’s no possible (tradotto all’italiana: che sfiga!!!)! Meno male che io ho portato i tappi per le orecchie!
Nel bagno è affisso un cartello alla parete, in cui si specifica che è vietato fumare cannabis in albergo e che la trasgressione comporta una multa di non ricordo quanti euro. Una cosa normalissima, direi (!?!): ne ho uno anch'io nel bagno di casa mia!
Disfiamo le valigie e ci accingiamo a compiere il nostro primo giro per la città.
Ascensore o scale? Scale, ovviamente! Dei salutisti ginnici come noi non prendono l’ascensore. Cominciamo a prendere le misure, pensando che dobbiamo scendere cinque rampe: i gradini sono strettissimi. Pazzesco! Ma che piedi hanno gli olandesi? Il mio (un misero 37) non ci sta, messo normalmente. Scendo le scale di traverso, aggrappandomi bene al corrimano, mentre Ila, davanti a me, le scende a papera, con i piedi completamente aperti all’infuori, ma è una scheggia, mentre io una lumaca con la paura di inciampare. Sarà così solo il nostro albergo? Risposta postuma: No.
 …
Amsterdam è una città bellissima, molto pittoresca, ma è un vero caos, a cominciare dalle strade: auto che sfrecciano in ogni direzione, bici che ti passano di fianco, davanti e di dietro, ad una velocità assurda (pare che gareggino tra loro), moto (tutte Vespa!) e taxi a… PEDALI. Da non credere! Che razza di cosce devono avere gli “autisti”, per trasportare la gente?!? Mi ricordano tanto la mia prima macchinina a pedali, quella con la quale a 4 anni mi sono schiantata, giù per la discesa di casa mia. Beh, certo, qui non si corre questo rischio: le strade sono tutte in pianura (eccetto i ponti sopra i canali)!
La Venezia del Nord, così viene chiamata questa città, ma di Venezia ha ben poco, canali a parte.
La cosa che più colpisce sono proprio le biciclette: se ne vedono a centinaia. Appena usciti dalla Stazione Centrale, si rimane di stucco, nel vedere il parcheggio delle bici, un parcheggio a più piani. E le persone, poi! Vanno in bicicletta vestite eleganti. Si vedono donne in tacchi a spillo, fasciate in abiti che io indosserei solo per frequentare ambienti di un certo tipo, uomini in giacca e cravatta, con la ventiquattrore e i mocassini in cuoio. Da qui, capiamo che quello è il loro mezzo di trasporto usuale. Si possono distinguere i turisti dagli abitanti del posto da come pedalano: i turisti si fermano agli stop, ai semafori, danno la precedenza a destra… gli abitanti no, sfrecciano via come schegge, incrociando le auto con un sincronismo perfetto. I semafori hanno il contasecondi, per indicare il passaggio dal rosso al verde, per i pedoni, ma il verde dura pochi secondi e bisogna correre, per attraversare la strada, se non si vuole finire sotto una macchina. Il caos è totale: pedoni, auto, bici, moto, taxi, tram, rumore di campanelli… aiutooo…!!!
E la gente? Ce n’è di ogni razza, colore e religione, per dirla come le formule dei libri di geografia (e di catechismo, aggiungerei). Senti parlare ogni lingua. Molti gli spagnoli, forse la maggior parte.

Allora, che c’è da vedere in soli quattro giorni? Guida alla mano, crocettiamo con la mia penna-rossetto le nostre mete: Van Gogh Museum, Museum het Rembrandt, Rijskmuseum, Teathre Museum, Casa di Anna Frank, Casa di Rembrandt, mercato dei fiori e programmiamo il giro in battello. Ovviamente non può mancare la tappa alla stazione a vedere i treni, la passione di mio marito (non c’è posto, in cui siamo stati, in cui non si sia fatta una tappa di almeno mezz’ora alla stazione, con foto e riprese delle locomotive e della segnaletica. Ormai ci ho fatto il callo…). Lui conosce i nomi delle locomotive, i codici e tutti gli orari. Lo stesso dicasi per i voli aerei nazionali, internazionali e intercontinentali. Quando vede un aereo in cielo, sa dirti di quale si tratti e persino la rotta. Ma come cavolo fa a saperlo, mi domando? Secondo me spara a caso… “Non vedi? Va di là, non può che essere quello delle... per…” Oppure “Non vedi la scia? Ha quattro motori, non può che essere…”. Vabbe’, se lo dice lui…
Sulla guida turistica, troviamo indicato il famoso quartiere a luci rosse e decidiamo che è meglio evitarlo, con Ila minorenne (ha solo tredici anni). E poi non si sa mai che gente si possa incontrare da quelle parti. E invece, senza accorgercene, ci finiamo dentro, la prima sera, mentre siamo in cerca di un ristorante dove cenare. Capiamo subito di esserci infilati in una via diversa. La gente ci guarda passare come se stessimo facendo la passerella. Qui tira un’aria che non mi piace: meglio tornare indietro. Vogliamo evitare situazioni pericolose (ci hanno raccontato di tutto, prima di partire), ma soprattutto, voglio evitare a mia figlia di vedere cose sconvenienti. 
Alla faccia delle cose sconvenienti!!! In una via del centro, decidiamo di fare tappa in un negozio, per acquistare dei souvenirs. Ve li lascio immaginare!!! Una bimba di colore sfoglia cartoline. Dai, che ne prendiamo qualcuna da spedire! Oscene! Assurde!  “Ila, non guardare!”. Mi sembra di essere una puritana, ma, per la miseria!, certe cose non le ho mai viste nemmeno io! Meglio uscire di qui! 
La mattina seguente, uscendo dall'albergo, incontriamo un gruppo di ragazzi che prendono il sole, sdraiati su materassi, davanti alla porta d'ingresso di un'abitazione, proprio sulla strada, bottiglia di birra in mano e sigaretta sospetta in bocca. Pensare che io, per prendere il sole sul balcone di casa, bardo tutta la ringhiera con asciugamani per non essere vista! Basta, ho deciso: quando rientro, anch'io materasso davanti al portone! E se poi il postino mi guarda male? "Che problema c'è? Mai stato ad Amsterdam?".

Le case della Venezia del Nord hanno finestre immense e sono tutte storte, pendenti in avanti, con ganci attaccati al soffitto, che servono per i traslochi: i mobili non passano dalle porte, che sono molto strette, e vengono issati e fatti entrare dalle finestre. La pendenza dei muri serve per evitare che la mobilia, durante la salita, possa danneggiare la facciata (secondo me anche per non rovinare i mobili stessi. Te li vedi arrivare in casa tutti raspati?) . Molte case hanno la porta ad un livello inferiore, rispetto a quello della strada, e vi si accede tramite una scala ripida e stretta. 
Notiamo alcune finestre illuminate da luci rosse soffuse: sono quelle delle donne in vetrina, che si  mettono in mostra e in vendita, per i passanti. Ne vediamo qualcuna.
Mentre siamo alla ricerca di un posto in cui mangiare, attraversiamo un quartiere in cui non troviamo nemmeno una donna (Ila ed io siamo le uniche). Che strano! Strano??? Strano per noi italiani, forse, ma qui è tutto normale! Si tratta, infatti, del quartiere gay. Ecco che mio marito affretta il passo. Chissà perché?
Certo che Amsterdam è tutto un altro mondo! 

Ma veniamo alla cultura...
Non starò qui a raccontare dei vari musei visitati, perché alla fine, che cosa vuoi raccontare di un museo?
Ma voglio soffermarmi su quello che mi ha colpita di più: la casa di Anna Frank. Avevo letto alle elementari il suo diario e avevo visto il film, ma niente a che vedere con l’entrare nella casa nella quale è vissuta prigioniera, durante la guerra, e con il toccare con mano.
La casa-museo conserva alcuni oggetti legati alla sua vita, ma la cosa più impressionante sono le testimonianze di chi l’ha conosciuta, registrate e proiettate su schermo in quasi ogni stanza, e il trovarsi nello stesso ambiente nel quale è stata lei. L’emozione per me è grandissima e violenta, tanto che non sono riesco a controllare le lacrime: mi scendono da sole. Ila mi si avvicina e dice: “Ma tu non ce la fai!” (espressione tipica dei ragazzi di oggi) “Sei proprio messa male, se piangi per così poco! Ma come si fa?”. 
Non so dirti, figlia mia, come si faccia, ma posso dirti che ho il cuore gonfio di angoscia a pensare a quello che ha vissuto quella ragazza, a vedere le finestre oscurate da tende nere, perché non si sapesse che la casa era abitata (lei e la sua famiglia avevano trovato rifugio sopra ad un magazzino, aiutati da alcune persone), a leggere sullo specchio del suo bagno una frase del padre, che si rivolgeva ai figli, bisbigliando di non fare rumore, di muoversi piano, di camminare con passo leggero, di sussurrare, perché nessuno, di sotto, doveva sentire che c’era qualcuno di sopra, altrimenti li avrebbero scoperti e uccisi. Ho il cuore che scoppia, mentre osservo le foto, raffiguranti attori e attrici, ritagliate dai giornali dell’epoca, che Anna appiccicava alla parete della sua stanza, per animarla un po’, e nel vedere quel disegno, fatto da lei. Mi fa male il petto, mentre salgo le strette scale in legno che portano al piano superiore, sapendo che quelle stesse scale le ha salite lei prima di me, quelle stesse scale, figlia mia… Lei, Anna l’ebrea, ed io, dopo di lei, Laura non ebrea, ma che sarei potuta essere al suo posto nemmeno tanti anni fa. 
All’uscita, la statuetta dell’Oscar vinto dall’attrice Shelly Winters nell’interpretazione del film sulla vita di Anna Frank, e quella dedica al padre di Anna, l’unico della famiglia sopravvissuto all’olocausto. La Winters aveva promesso che, se avesse vinto l’Oscar, lo avrebbe donato al museo. Ed eccolo qui, davanti a noi, con tutta la tragedia che rappresenta.
Tutto qui, bimba mia. Tutto qui…

Lau

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